La parola terra materna, rubrica di poesia dialettale a cura di Anna Maria Curci: Favaron, Scalabrino, Serpilli

La parola terra materna, rubrica di poesia dialettale a cura di Anna Maria Curci: Favaron, Scalabrino, Serpilli

 

       

Il titolo di questa rubrica dedicata alla poesia contemporanea nei dialetti d’Italia è ispirato a Madreterra di Rose Ausländer (qui nella mia traduzione): « La mia patria è morta/l’hanno sepolta/ nel fuoco// Io vivo/ nella mia madreterra/ la parola».
In quei versi Rose Ausländer faceva riferimento al sofferto recupero della propria lingua materna, quella tedesca, non più ancorata alla terra d’origine della scrittrice, la Bucovina, devastata anche da uomini che in comune con lei avevano il tedesco come madrelingua.
Il ritorno alla poesia nella lingua materna era dunque accompagnato da una vibrante affermazione: la parola è «madreterra».
Una affermazione che è anche assunzione di responsabilità, atto di impegno, passaggio del testimone, di un testimone che mi sembra pienamente accolto, oggi, dalla poesia dialettale, che, ben lungi dall’essere un mero ornamento folkloristico, liberatasi dallo stampo di un rimpianto fine a se stesso, ingaggia una fruttuosa tenzone con la contemporaneità, della quale pur avverte la disgregazione e, non di rado, la devastazione subita e causata.
Fiorisce dunque la parola terra materna nella «terra devastata», e fiorisce con sonorità, con melodie linguistiche e con accenti vari, spesso così distanti tra loro urti dissonanti e pur sempre fecondi.
Il plurilinguismo poetico al quale dà vita la poesia contemporanea nei dialetti d’Italia ha, inoltre, il pregio tipico di ogni manifestazione di plurilinguismo, vale a dire quello di favorire sviluppi (incoraggiati da incontri e intrecci, da conversazioni a più voci), degni di interesse anche nelle lingue nazionali.
Non è azzardato dunque affermare che il panorama poetico si è arricchito, ampliato, rinvigorito grazie all’incontro con la poesia dialettale. Questo vale non soltanto per le versioni in italiano che gli stessi poeti dialettali creano delle proprie poesie, ma anche per il circolo virtuoso che si è andato sviluppando nel campo delle riflessioni metalinguistiche, quindi su temi, strumenti e cadenze del dire poetico. In tal senso abbraccio con convinzione il titolo di una recente antologia curata da Ombretta Ciurnelli: Dialetto lingua della poesia.

 

Breve itinerario biografico nel dialetto

L’amore per la poesia dialettale si è manifestato nel corso della mia vita, da che ho ricordi, in forme diverse, con differenti gradi di consapevolezza e di slancio. Da piccola, ho conosciuto la poesia dialettale dai racconti materni come forma alta di espressione umana che rappresentava, nel “lessico famigliare”, l’unica, dignitosissima, eccezione al divieto rigoroso di far uso di qualsivoglia dialetto regionale nella comunicazione tra le pareti domestiche (fuori, essendo cresciuta nella periferia della capitale, non c’era modo di ascoltare o di cimentarsi né nel ruvese di mio padre, né nel pignolese di mia madre; restava solo l’accento romanesco, deprecato e detestato apertamente da entrambi i genitori). La curiosità si accompagnava dunque, allora, al continuo tentativo di trasgredire quel divieto. Poi sono arrivati gli studi liceali e la consapevolezza di una tradizione dalle radici antiche e sempre rinnovate, una tradizione che nulla perde nel corso del tempo, nulla concede allo sprezzo, basato solitamente su argomentazioni tra lo spocchioso e il timoroso della pluralità,  che a intervalli regolari viene dispensato dal ‘degustatore’ di turno, sia questi noto o sconosciuto. Infine, nella maturità, lo studio, la lettura appassionata, la familiarità con la poesia neo-dialettale hanno rinsaldato la convinzione della grazia e della dignità, della forza di questa parte fondamentale, pilastro, ponte e fiume, della produzione poetica in Italia.

       

Renzo Favaron (Veneto)

I testi qui presentati provengono da diverse raccolte che si estendono nell’arco di quasi tre decenni e che dimostrano l’ampiezza dell’opera poetica in dialetto di Renzo Favaron. Sono testimonianza di una vera e propria dedizione alla parola, di una ricerca incessante – sguardo mobile, tuffo nella folla e attraversamento del deserto – che non può non contemplare, come tappa essenziale di un procedere incessante che dà conto della fatica e dell’affanno (El fia’ se sente), anche il silenzio, un silenzio, tuttavia, offerto «’ncora co’ le parole», «ancora con le parole» (‘N’acua de sogno). Renzo Favaron, che, nell’antologia Guardando per terra (LietoColle 2011) ricorda come le sue prime prove di poesia in dialetto siano state le trascrizioni dei sonetti di Guido Cavalcanti, sonetti amati, in ritmi dati e «codificati», dei quali voleva ‘saggiare’, inizialmente anche per gioco, la resa in una lingua familiare, trasferisce la metafora di Goethe (“l’architettura è musica congelata”) all’ambito della poesia, affermando: «per me la poesia in dialetto è soprattutto architettura liquida – un materiale che porto all’incandescenza e che poi cerco di plasmare come un vetraio di Murano».

 

 El fia’ se sente

El fia’ se sente, poca aria
in-tei polmoni che se fa
parola e dire cofà de strofa
che in boca se tien ‘sconta
e che ‘ncora gnessun gà sentìo…
‘Desso, ‘vendo vivesto squasi
in-te on esilio, me manca fradei
d’acento, compagni materni
da ciamar co ‘l sòno in-te ‘l peto.
Anzhi, deventa scura la vozhe
‘traverso i fiachi vocaboli
in diaeto, respiro e sussurro
cofà de fontana che se suga.

Il fiato si sente

Il fiato si sente, poca aria
nei polmoni che si fa
parola e dire come di una strofa
che in bocca si tiene nascosta
e che ancora nessuno ha sentito…
Adesso, avendo vissuto quasi
esiliato, mi mancano fratelli
d’accento, compagni materni
da chiamare con il sonno nel petto.
Anzi, diventa cupa la voce
attraverso i fiacchi vocaboli
in dialetto, respiro e sussurro
come di fontana che si asciuga.

(da Presenze e conparse)

‘N’acua de sogno

‘Ncorà murà, fermo,
ciuso da piova e fumo.
Co’ la vozhe mai avùa
gò misurà cuel filo de luzhe
che sprangava la to casa,
gò alzà i brassi a la sera
parché i balconi
fusse des-ciavà.

‘N’acua de sogno xe corsa
par gnente.
‘Ndove li toremo, ‘desso
che xe inverno,
i fruti de l’istà?
Persa la ciave de la cità,
semo deventà veci d’un trato.

E ‘desso gnente pì resta,
a parte sto sienzhio
che te dago ‘ncora co’ le parole.
Altro no’ se concilia:
i fruti in istà
i ritornarà, ma ogni ùn
a l’altro el mancarà.

Un’acqua di sogno

Ancora murato, fermo,
chiuso da pioggia e fumo.
Con la voce mai avuta
ho misurato quel filo di luce
che sprangava la tua casa,
ho alzato le braccia alla sera
affinché le imposte
fossero dischiuse.

Corse un un’acqua di sogno,
inutilmente.
Dove li prenderemo, adesso
che è inverno,
i frutti dell’estate?
Persa la chiave della città,
siamo invecchiati d’un tratto.

E ora niente più resta,
a parte questo silenzio
che ti offro ancora con le parole.
Altro non si concilia:
i frutti in estate
ritorneranno, ma ognuno
all’altro mancherà.

(da Testamento)

     

‘Ncora on minuto

Cossa sognavo?
De festeiare i sincuanta ani?
No’ solo on minuto ‘ncora.
Anca ti cofà cue’a
a lo specio, ‘n’assente
che vedevo lì, bionda
e coi recini de piera blu,
ma che no’ ghe gera,
cofà se ún dei dò
ghesse spetà massa
o se fusse mosso prima…

Chi gerala mai?
Dò oci che vardava chi?
Cualcun senpre sol pónto
de portar cue’o che se manda
a dir, cofà el mesagero de l’imperatore?
No’ la gera on sogno,
ma cue’o che se trova
cô no’ ghe xe pì.
La xe pa ela
che la parola sanguina.
No’ lo gò mai capìo ben.

Dio de misericordia
sera on ocio su de mi,
dame ‘ncora on minuto.

Ancora un minuto

Cosa sognavo?
Di festeggiare i cinquanta anni?
No, solo un minuto ancora.
Anche te come quella
allo specchio, un’assente
che vedevo lì, bionda
e con gli orecchini blu,
ma che non c’era,
come se uno dei due
avesse aspettato troppo
o si fosse mosso troppo presto.

Chi era mai?
Due occhi che guardavano chi?
Qualcuno sempre sul punto
di portare ciò che si manda a dire,
come il messaggero dell’imperatore?
Non era un sogno,
ma quello che si trova
quando non c’è più.
È per lei che la parola sanguina.
Non l’ho mai capito bene.

Dio di misericordia
chiudi un occhio su di me,
dammi ancora un minuto.

(da Balada incivie, tartufi e arlechini)

Fermo

Luneta, ieri scrivevo:
«Fermo: par mi che gero tera
no’ se restà gnanca on loto.
Sabia de fumo sbate a la finestra:
fiori fiapi, neve, paese nudi,
tuta la vita passà a ‘scoltare.
Sol sofito Cristo ride, cofà sempre condanà
a piazher, anca se ormai
no ‘l me pare pì lu, ma ùn sfinìo e ciucià
da lo stare in mezho ai omini.
Eco, se spalanca la porta.
Vien ‘vanti ‘na colona infeta: nani,
domatori de bisse, maghi, giocolieri,
un bò scuartà che pì no’ se trovava.
Ferma, a oci ‘verti sol leto,
tuta la note xe durà la procession».

Ancuò la linea del to profìo
xe anca la mia.
Vegetae. Perpendicoare.

Fermo 

Lunetta, ieri scrivevo:
«Fermo: per me che ero terra
non è rimasta neanche una zolla.
Sabbia di fumo sbatte alla finestra,
fiori secchi, neve, paese nudi,
tutta la vita passata ad ascoltare.
Sul soffitto Cristo ride, come sempre condannato
a piacere, anche se ormai
non mi sembra più lui, ma uno sfinito
e spremuto dallo stare in mezzo agli uomini.
Ecco, si spalanca la porta.
Viene avanti una colonna infetta: nani,
domatori di serpenti, maghi, giocolieri,
un bue squartato che più non si trovava.
Fermo, a occhi aperti sul letto,
tutta la notte è durata la processione».

Oggi la linea del tuo profilo
è anche la mia.
Vegetale. Perpendicolare.

(da Diario de mi e de la me luna)

        

Renzo Favaron è nato nel 1958, vive e lavora a San Bonifacio (VR). Dopo un’iniziale plaquette in lingua,nel 1991 pubblica in dialetto veneto Presenze e conparse, con una prefazione di Attilio Lolini. Del 2001 è il romanzo breve Dai molti vuoti. A partire dal 2002 pubblica alcune minuscole plaquette presso le edizioni Pulcino-Elefante. Nel 2003 pubblica Testamento (nota di Giani D’Elia), un’altra raccolta di poesie in dialetto, nel 2006 Di un tramonto a occidente e nel 2007 Al limite del paese fertile (postfazione di Alberto Bertoni). Il racconto La spalla è del 2005. Del 2009 è In cualche preghiera (postfazione di Giancarlo Consonni e vincitore del Premio Salvo Basso). Segue nel 2011 Un detri tri de un (nota introduttiva di Giovanni Tesio e postfazione di Lorenzo Gobbi), che raccoglie venti anni di poesia in dialetto. Del 2012 è Ieri cofa ancuò (nostos par passadoman), con una nota di Paola Tonussi. Del 2014 è il racconto breve Esordi invernali e del 2015 la raccolta Balada incivie, tartufi e arlechini. Del 2018 è Diario de mi e de la me luna. È presente nelle antologie: Guardando per terra, L’Italia a pezzi, Verona: Antologia dei grandi scrittori, Con la stessa voce (Poeti dialettali traduttori). Collabora con lit-blog che si occupano di poesia e narrativa.

     

Marco Scalabrino (Sicilia)

Le poesie qui proposte provengono da diverse raccolte che Marco Scalabrino ha pubblicato a partire dal 1997. Alcune di esse sono state scelte per la pubblicazione in un volumetto in tre lingue, La puisia di Marco Scalabrino / The Poetry of Marco Scalabrino / La poesia di Marco Scalabrino. A Trilingual Anthology (Sicilian/English/Italian)(Legas, New York, USA 2018). La versione che segue è dunque quella dell’antologia in tre lingue, con la traduzione in italiano di Maria Pia Virgilio. La scelta dei testi che seguono, e che ho avuto il privilegio di conoscere, negli anni, nella loro prima veste editoriale, è dettata dal loro alto grado di rappresentatività all’interno di una produzione poetica, quella di Marco Scalabrino, che conferisce al dialetto siciliano una dignità elevata, un’eleganza raffinata, un esplicito progetto espressivo che scongiurano ogni pericolo di sconfinamento nel folklore e nel particolarismo. I versi densi, essenziali, sprigionano la forza evocativa delle parole, il bagliore accecante così come il silenzioso insinuarsi nella coscienza di suoni e immagini.

Tempu

Armu putìa.
Aju la truvatura
e li carti in regula p’aggigghiari:
licenza, si capisci,
un magasenu
e na vitrina a jornu cu la nzinga

“Accattu e vinnu tempu”.

TEMPO – Metto su bottega. / Ho scovato l’idea / e i requisiti per attecchire: / la licenza, ovviamente,/ il locale / e la vetrina a giorno con l’insegna // “Compro e vendo tempo”.

       

Palori

Certi palori sunnu duri
duri chiù di autri
a ncrucchittari.
Ntantu mi sconcicanu
mi cunnucinu manu manuzza
m’ammustranu mari
e munti
e universi trascinnenti
e poiaddimuranu
s’annacanu tutti e scialanu
si siddianu e l’aju a prijari.
E quannu nfini
comu iddi vonnun’attrappu un paru …
s’ammuscianu di bottuli curtigghiari
comu ddi veliabbuturati di bunazza.
Unni è lu truccu allurami dumannu
e comu ponnu
e a cui fannu scantari
cristalli raciuppati nna li stiddi
minni amurusi di matri
ciarameddi
trazzeri addumati di libirtà
tozzi di paci
virità:
palori.

PAROLE – Certe parole sono dure / dure più che altre / ad aggregarsi. / D’un canto mi stuzzicano / mi conducono per mano / mi mostrano mari / e monti e universi trascendenti / e appresso s’attardano / si danno delle arie e si sollazzano / si infastidiscono e mi tocca implorarle. / E quand’anche talora / si concedono / e ne agguanto un paio … / ecco di botto s’afflosciano quelle pettegole / come le vele trafitte dalla bonaccia. / Dove sta l’inghippo allora mi domando / e come possono / e a chi mettono paura / cristalli racimolati tra le stelle / seni amorosi di madre / cornamuse / viottoli illuminati di libertà / tozzi di pace / verità: / parole.

      

La casa viola

Staiu
na casa
cu li naschi viola.

Stulani
a conza
di collamitina.

E lampi
e trona
pi viviruni.

LA CASA VIOLA – Abito / una casa / con le narici viola. // Inquilini / a prova / di colla d’amido. // E lampi / e tuoni / in terrazza.

      

Battaria

Avissivu a sentiri battaria stanotti
è sulu l’universu
nna tuttu lu so pisu
chi di ncapu a li mei spaddi
cu tramusciu d’ossa
e sangu e lastimi
paru paru
jusu jusu

nzina a li pedi
scinni
e nesci
e munciuniatu
di li visciri di la terra
subissa

nun vi spagnati.

       

FRASTUONO – Se doveste sentire frastuono stanotte // è solamente l’universo / in tutto il suo peso / che attraverso me / con sconquasso di ossa / e sangue e spasmi / per intero / giù giù / sino ai miei piedi / scende / ed erompe / e sprofonda / sgretolato / nelle viscere della terra // non state a preoccuparvi.

Suppa

“Siddu su’ tanti
e sparaggi di tia
e contra
cui dissi chi su’ puru peggiu?”

Ci fici suppa
nottitempu.

CI HO RIFLETTUTO – “Se sono tanti / e diversi da te / e contro / chi dice che per questo sono peggiori? // Ci ho riflettuto / tutta la notte.

      

Marco Scalabrino, 1952. Poeta, traduttore, saggista: Palori (1997), Tempu palori aschi e maravigghi (2002); Canzuna di vita di morti d’amuri (2006); La casa viola (2010); Parleremo dell’arte che è più buona degli uomini (2013), Na farfalla mi vasau lu nasu (2014); Giovanni Meli. La vita e le opere (2015); Alessio Di Giovanni. La racina di Sant’Antoni (2016); Ignazio Buttitta. Dalla piazza all’universo( 2019). È stato componente del gruppo regionale nel progetto L.I.R.eS., sostenuto dal MIUR, per lo studio del dialetto siciliano nelle scuole.

      

Fabio Maria Serpilli (Marche)

Nelle poesie di Mal’Anconia di Fabio Maria Serpilli il dialetto anconetano, «lengua antiga», è un bene tanto legato al sé da non poter essere stimato, è ciò che rimane anche quando tutto il resto precipita, si sgretola, per intima consunzione o per scosse sismiche, esterne e rovinose. Allo stesso tempo, la «lengua antiga» è strumento per esplorare e portare alla luce i mali e le bellezze della città che l’ha nutrita e che essa nutre, che la scuote e la rimodella e della quale essa restituisce lo squarcio di luce e l’agonia, il tremito e la tessitura. Bene e strumento, corpo sonoro e metodo di composizione, essa tiene conto del dilemma e del contrasto – Dire non dire, Fare disfare– tra parola e silenzio, fino a formare una sola entità con l’io, che prospetta il dopo, l’oltre, abbinando la lingua e il sé: «senza na lengua/ senza de me».

Poesie da Mal’Anconia
(Malinconia e anche male di Ancona)

Tremòto (terremoto)

A l’ora de sera che già nun è più sera,
tra ‘n tremòto che va e ‘n trèmito che viè
quel che pudeva esse’ ancora brrrr
e quel che c’era de la cità
armane pogo o gnente
fòr che sta lengua antiga
ventriori de palazi
e muri giù
el tempo
perde i pezi pe le scale

Mòrene le cità
come che le perzone

 

Angonia (agonia d’Ancona)

Sota ‘n celo tramonto
mal’anconia conoscio            (malinconia e male di Ancona)
un bel balo de vele
int’un intorno roscio
Sopr’al sacro Còtano          (Sasso, Colle Guasco)
incendia bianco el Dòmo
el Porto giù a baso
abisa pog’a pogo
Cità de l’angonia
quanto meno t’aspeti
alza tut’i canpanili
viè’ su cun tut’i teti

 

Dì’-nun-dì’ (Dire non dire)

Quanta pace c’è ntel tuto
quanta ancó ntel gnente
In quanti fòi cercavo
de méte sti dô verzi
a incastro propio
indove ce diceva
Chisà si ho fato bè
a nun li scancelà?

Si è fadiga a dì
nun dì è più fadiga
Quando
imparo el silenzio

 

Fà disfà (Fare disfare)

Tante le volte ’n’ora è ferma
e tanta ferma che pare
fra pogo trema
l’esata confusió

E te cum’arimedi
al sbrego mundiale             (buco, ferita)
si le parole nun fa
che fadisfà le trame?

Te cun qûi diti rompe!      (Tu con quelle dita rompi)
Te séguita a cuge! (tu continua a cucire)

 

Preludio

Sardó cu j ochi smòrci (sardone)
su na pianca de marmo (su un piano di marmo)
e la boca operta
a l’ultimo fiato
O tera mia indurmita
su l’aqua orientemente
vivo int’una cità
de muri senza gente.

E vojo cusì sia
sto silenzo preludio
a la sorte mia
indó sarò da solo
senza palazi e strade
senza na lengua
senza de me

       

Fabio Maria Serpilli, nato ad Ancona nel 1949. Studia Filosofia a Roma. Nel 1987 esce la raccolta di poesie in dialetto, Castelfretto nostro, con prefazione di Valerio Volpini che definisce Serpilli (su Famiglia Cristiana Ottobre 1994) “L’erede di Franco Scataglini”. Uno dei volumi più fortunati e originali è considerato I luoghi dell’anima (peQuod 2002). Del 1999 è la silloge Mal’Anconia (Humana editrice). Dal 1996 dirige il laboratorio di scrittura poetica ad Ancona e a Falconara Marittima. Dal 2011 al 2016 è stato Docente di Scrittura Creativa presso l’ Accademia di Belle Arti di Urbino. Tra libri di poesie in italiano e dialetto, curatele di antologie, ha pubblicato circa 60 opere. Nel 2010 esce il “Dizionario dialettale aguglianese” compilato da Fabio M. Serpilli.
Dal 1996 cura l’antologia LA POESIA ONESTA, che raccoglie le sillogi in lingua e dialetto di autori italiani. Dal 2005 cura le antologie di poeti dialettali marchigiani del Festival del Dialetto di Varano (AN), giunto alla 42ª edizione. Del 2005 è il volume “Poeti e Scrittori dialettali” (Ed. QuattroVenti di Urbino) in coabitazione con Fabio Ciceroni e Giuseppe Polimeni, docente di Storia della lingua italiana all’Università di Milano. Nel 2018 pubblica assieme a Jacopo Curi (Macerata) l’Antologia Poeti neodialettali marchigiani (per la collana de I Quaderni del Consiglio regionale delle Marche).

      

Emiliano Barbieri, Peru

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