Non chiamiamole fake news.
Di MICHELANGELO COLTELLI
Ormai è normale leggere sui giornali che questa o quell’altra notizia si sono rivelate “Fake News”. Eppure, sono anni che il Consiglio d’Europa ha pubblicato studi che spiegano perché questo termine non andrebbe più usato. Peccato che siano pochi i giornalisti e i politici interessati a fare corretta informazione sulla materia.
Correva l’ormai lontano 2017 e i media occidentali titolavano tutti “Fake News, parola dell’anno”, perché secondo gli autori del Collins Dictionary questa parola era stata la vera protagonista del periodo. L’anno prima c’erano state le presidenziali americane con la vittoria di Donald Trump che, come prima di lui i fautori della Brexit, aveva basato la sua campagna elettorale su tanta disinformazione.
Se quella disinformazione sia stata il motivo per cui prima gli inglesi hanno votato a favore dell’uscita dall’Unione Europea, e poi gli americani hanno votato Donald Trump come loro presidente, è un qualcosa che potranno dirci probabilmente solo i posteri, quando studieranno più in dettaglio la storia di questi anni.
Di sicuro questa concomitanza di eventi ha dato spunto al Consiglio d’Europa per un rapporto che analizzasse meglio il problema. Questo rapporto è stato appunto pubblicato nel 2017 (1) e riporta nelle sue pagine iniziali:
“In questo rapporto, ci asteniamo dall’usare il termine ‘Fake News’ per due motivi. Primo, è tristemente inadeguato a descrivere i complessi fenomeni di inquinamento dell’informazione. Il termine ha anche iniziato a essere appropriato da parte dei politici di tutto il mondo per descrivere le testate giornalistiche la cui copertura trovano sgradevole. In questo modo, sta diventando un meccanismo attraverso il quale il potente può reprimere, limitare, minare ed eludere la stampa libera.”
Sono passati quasi sei anni da allora, eppure il termine “Information Disorder” (Disturbo dell’Informazione) non lo vediamo usare praticamente da nessuno, se non da accademici e responsabili del Consiglio d’Europa, mentre i media generalisti, i giornalisti e i politici continuano imperterriti a ignorare le linee guida europee, eludendo il fatto che, come appunto spiega il rapporto, l’uso di “Fake News” sia inadeguato in queste situazioni.
Attualmente, nel nostro paese, la maggioranza delle persone che sentono questa locuzione la accomuna al termine “bufale”, vale a dire notizie sciocche e innocue, convinti che in realtà le fake news al massimo possano strappare un sorriso e non arrecare danni irreparabili.
Nel Regno Unito, ad esempio, dopo che si è votato per la Brexit, i promotori dell’Uscita dall’Unione hanno dovuto pubblicamente ammettere che parte della loro campagna era basata su falsità che hanno contribuito alla crisi che il Regno Unito sta tutt’oggi attraversando.
Un altro esempio, che ci tocca da vicino e che dimostra come il disturbo dell’informazione sia estremamente dannoso, riguarda la Pandemia.
Da marzo 2020 fino a giugno dello stesso anno, molte testate nazionali riportarono l’informazione (sbagliata) che l’OMS sconsigliasse l’uso generalizzato delle mascherine, poi, il 6 giugno 2020 il Corriere della Sera pubblicò un articolo intitolato: “Svolta dell’Oms sulle mascherine: «Indossatele, utili contro il Covid»”.
In questo contesto, l’uso della parola “svolta”, ha radicato nel lettore l’idea che un’organizzazione come l’OMS potesse aver sbagliato in precedenza e, solo in seguito, ritornare sui propri passi.
Ma la realtà dei fatti non è questa: l’OMS fin da subito ha spiegato quanto fosse importante l’uso delle mascherine, aggiungendo che questa pratica non fosse una misura sufficiente, anche se necessaria in tutti quei casi in cui non era possibile evitare il contatto con altre persone.
Il timore dell’OMS era che insistendo sull’uso delle mascherine, la gente smettesse tutte quelle altre indicazioni che servivano a tenere i contagi sotto controllo, dall’uso dei disinfettanti all’attenzione a evitare luoghi troppo affollati. Ma non è vero che ne sconsigliassero l’uso.
Perché i giornalisti hanno scelto di usare quel tipo di titolo a giugno? Dopo tre mesi in cui avevano insistito che le mascherine fossero sconsigliate, avrebbero dovuto ammettere di aver fatto cattiva informazione, invece usando quel titolo hanno spostato la colpa sull’OMS creando diffidenza da parte del pubblico generalista nei confronti di questa organizzazione al punto che tutt’oggi, a distanza di due anni, sentiamo ripetere che l’Organizzazione Mondale della Sanità non è affidabile, quando invece sono rimasti sempre coerenti con le proprie dichiarazioni.
Come catalogare la cattiva informazione?
Quando ci si trova di fronte a notizie mal raccontate spesso ci si pone il dubbio di come definirle e quale termine sia il più corretto per descriverle.
Nel rapporto del Consiglio d’Europa, oltre alla dicitura “Information Disorder” sono indicati altri termini che abbiamo deciso di implementare sul nostro portale “BUTAC”, dedicato al debunking; questi termini dovrebbero servire a inquadrare ancor meglio il tipo di disinformazione davanti alla quale ci possiamo trovare, caso per caso.
Nello specifico la cattiva informazione può essere distinta in tre categorie: “Misinformation”, “Disinformation” e “Malinformation”.
Ad oggi, esiste una traduzione italiana solo per i primi due termini, anche se l’Accademia della Crusca non ritiene che il primo vada usato in quanto (2), citando dalle loro fonti:
“(…) un eventuale definitivo accoglimento di misinformazione nel senso di informazione errata o carente non intenzionale sottrarrebbe terreno semantico a disinformazione, spingendolo nello spazio che questo nuovo vicino gli lascerebbe libero, cioè verso il significato più ristretto e più “inglese” di informazione falsa diffusa con dolo.”
In tanti hanno comunque scelto di usare i seguenti tre termini in Inglese o con la loro versione italianizzata:
• Misinformazione
comprende tutte quelle informazioni false o non corrette che però sono diffuse senza l’intenzione di essere fuorvianti o malevole.
• Disinformazione
comprende tutti quei contenuti che invece sono intenzionalmente diffusi in maniera sbagliata, in maniera distorta o faziosa, e a volte creati appositamente.
• Malinformazione
è la categoria più complessa, in quanto non comprende notizie false ma informazioni vere di cui spesso vengono omessi dettagli cruciali, e che vengono quindi diffuse con lo scopo preciso di provocare contrasti, di creare confusione nel pubblico, oppure di arrecare danno diretto alle persone protagoniste delle informazioni stesse.
Catalogare i vari tipi di disturbo dell’informazione è importantissimo, perché permette di distinguere l’informazione creata a scopo di dolo da quella che è sì riportata in modo errato, ma senza l’intenzione di procurare alcun danno.
Purtroppo la maggior parte della cattiva informazione che viene messa in circolazione ricade nelle due categorie peggiori: Disinformazione e Malinformazione. Quest’ultimo tipo di notizia, in particolare, è difficilissima da riconoscere per l’utente che non ha le giuste conoscenze sul tema in questione, ed è quella che spesso, tristemente, tiene ormai banco sui media più importanti. Per fare due esempi comuni, si pensi alla testata giornalistica che riporta solo in parte le dichiarazioni di un politico per metterlo in cattiva luce o alla trasmissione che taglia volutamente le interviste in modo da pilotare l’opinione pubblica.
Come avrete capito l’information disorder è un disturbo dalle connotazioni decisamente serie. Purtroppo ad oggi non esiste un vero piano di contrasto alla cattiva informazione; ci sono iniziative atte a demistificare quanto di falso circoli, ma non è così che ne usciremo. Servono impegni dal punto di vista scolastico e governativo per mettere in piedi le misure di contrasto più idonee, che non devono limitare la libertà d’espressione, arrivando alla censura, bensì istruire l’utente a riconoscere quella notizia che puzza di marcio.
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(1) Information disorder: Toward an interdisciplinary framework for research and policy making https://edoc.coe.int/en/media/7495-information-disorder-toward-an-interdisciplinary-framework-for-research-and-policy-making.html
Michelangelo Coltelli è fondatore di BUTAC.it, acronimo che sta per Bufale Un Tanto Al Chilo, uno dei primi blog italiani ad affrontare il problema dell’information disorder. Il progetto BUTAC nasce nel 2012 come pagina facebook (oltre che come rubrica su Lega Nerd: BonsaiKitten) e dal 2013 diventa un blog che si occupa di corretta informazione utilizzando, quando necessario, esperti della materia da trattare. Negli anni è stato relatore alla Normale di Pisa, ai convegni del CICAP e in svariate università italiane. Scrive, come co-autore, i testi della trasmissione televisiva “Fake” su la Nove nel 2019, ed è uno degli autori del libro “Fake News. Cosa sono e come imparare a riconoscere le false notizie” pubblicato nel 2019 per Franco Cesati editore. In seguito, insieme ad altri esperti del settore, partecipa alla stesura di una collana dedicata alle Fake News, per Lisciani Editori, dedicata ai più giovani.
banalità, ma magari utile: c’è un typo, “MaUnformazione” invece di Malinformazione. Non trovbo chiaro, inoltre, come classificare i post di chi condivide disinformazione e malinformazione altrui, senza rendersene conto.
Il rischio di arrivare alla limitazione della liberta` di espressione fino alla censura e` proprio il motivo per cui non sarebbe assolutamente da auspicare un contrasto statale al disturbo dell’informazione, ne` un debunking istituzionalizzato; l’unica azione efficace e` quella citata nelle note conclusive, cioe` promuovere la capacita` di critica e di libero pensiero dell’utente (inteso come cittadino) fin dalla fase scolastica. Poniamoci allora il problema di come funziona adesso la Scuola e quali obiettivi si propone.