Non ci sono foto ma qualcosa è rimasto di Matilde Vittoria Laricchia, puntoacapo editrice. Note di Luigi Paraboschi.
Ricordo che il mio primo impatto con la poesia della Laricchia risale alla lettura di tre testi inviati ad un concorso della cui giuria faccio parte, e, riprendendo in mano i miei appunti di allora, leggo queste note che mi ero prese:
“L’occhio del poeta si serve di un linguaggio estremamente innovativo e sintetico ed è capace di stendere nell’ultima poesia alcune pennellate di colore che ci permettono quasi di entrare fisicamente nel grigio di un posto che sembra immerso nella lava e nella ruggine che pare appartenere ad un quadro dell’espressionismo astratto di Bernard Buffet.”
Oggi che sono in possesso del volumetto completo delle poesie di esordio di questa poetessa, devo ammettere che la nota che mi viene d’istinto di fare alla prima lettura è che in lei o c’è stato un tentativo di esercitare la pittura in qualche modo magari dilettantesco , oppure che abbia studiato abbastanza l’arte pittorica, o che almeno debba aver “ masticato “ parecchi quadri, ed a suffragio di queste mie affermazioni faccio l’elenco dei colori che si possono ritrovare nelle sue poesie :
grigio- ruggine – limone- giallo uovo – verde – giallo lampione – bianca – nera rosso – nero- celestino – grigio sereno – verde viscido- blu cupo – arancia- nocciola- vede permanente- giallo di luce – grigie – verde fresco – rosso rame – ocra –
Una tale elencazione di tinte non può passare inosservata al lettore e alla fine oserei scommettere che Laricchia sia anche pittrice, e me lo suggerisce quella definizione “ verde permanente “ che a mio avviso tradisce una certa dimestichezza con la nomenclatura dei colori quale si può ricavare dai tubetti in uso corrente.
Fatta questa premessa, forse superflua per molti, vorrei entrare con pazienza dentro un testo nel quale non ci si perde nella “ complicanza “ delle parole, ma che richiede attenzione per l’uso che delle parole stesse Laricchia fa, specie per la punteggiatura disinvolta e spesso assente del tutto, e degli enjambements completamente fuori da ogni regola di suono o di logica metrica.
Ma poiché a me interessa sempre cercare la persona che sta dentro ogni testo, voglio vedere se ciò che leggo mi coinvolge emotivamente, oppure se mi lascia indifferente, e credo che la struttura di questo libro sia decisamente delineata fin dalla poesia d’apertura che devo riportare per intero per far capire
(Un giorno esplosi.
Proiettata in pezzi avanti ho
tastato cieca attorno
per sperare in qualche coccio Ma
nessuno li vedeva.
Storpia dissi “striscio oltre”
– tagli e rivoli sul fianco –
a raccomandare in giro che
nessuno mi pestasse
Poi trovai altre parole
gambe nuove sulla strada,
schegge spesse tra le mani.
Ricomposte le mie parti
ora soffio sotto i ponti
spio correnti nei miei vuoti
e se torna gonfia sfatta
l’aria pregna dello scoppio io
la inspiro forte a fondo
ghiaccio spilli nei polmoni.
Ho provato a non parlare
ma poi trovo con un gesto
ogni crepa sul mio corpo
quando espansi tutti i pezzi su
una retta che conosco).
Si potrebbe anche dire d’acchito che questa non sia altro che la solita poesia sul dolore ( “esplosi” ) e sulla necessità di rimettere in sesto la mente dopo una esperienza ( a raccomandare in giro/ che nessuno mi pestasse ) , e forse il fatto che essa sia stata collocata in apertura del libro, quasi fosse un preambolo ai testi successivi, intende proprio rappresentare l’auto-da-fé dell’autrice; ma noi la vogliamo seguire nel suo cammino e appena dopo poche pagine troviamo questo pezzo che dice :
E mi vieterò di seguire lo spigolo col dito
dove la luce nettamente si fa ombra
Guarderò la facciata nuda, il commento tra ogni
mattone uguale
sei piani sparati al sole e chiacchierio vibrante di tende
e lenzuola.
Perderò dimensioni e segnerò ogni cosa
con tratto infantile marcato e incerto.
Seguiamola ancora la nostra giovane esordiente, mentre appoggiata al muro della sua esistenza accompagna, come fanno talvolta i bambini, lo spigolo del muro maestro della sua vita appena iniziata, ed è in quell’angolo che “ la luce si fa ombra“, nel senso di voler significare l’affiorare dei primi addoloramenti, ma lei vuole “ segnare ogni cosa con tratto infantile marcato ed incerto “, come a sottolineare il rifiuto dell’autocompiacimento.
Ed il dialogo con il lettore ha inizio.
E’ un discorrere a due che esclude gli altri pervenuti, è solamente lei e noi,
Alla mia prossima mossa
tacete, capite
voi non giocate questa partita
Sono sola
prima bianca poi nera
suono fiati di gioia e lacrimo violini
Tacete, capite
vi do il mio peccato, ne ho troppo:
si scioglie in bocca originale
esplode liscio poi vola,
parla la mia stessa lingua contro di me Si
chiama Amore.
In questo discorrere appare netta la coscienza della “ provvisorietà “ di una storia che per molti versi è identica a quella di milioni di altre storie, ma che per la persona interessata è sempre esperienza unica, perchè lo “ scempio “ di cui si parla nel testo non è certamente quello che compiono “l’ansia delle mani” dell’ autrice, ma forse è già presago di qualcosa che sta succedendo o avverrà quasi subito, visto il verso finale, così isolato e tranchant.
Verde permanente
e giallo di luce
negli occhi costretti socchiusi
Qualche
nota di voce
nostra,
domande facili
– il riso d’una battuta –
Ti spiavo seduto accanto
e l’erba subiva
l’ansia delle mie mani,
vedevo lo scempio
ma non lo guardavo mica.
Sospesa mi rimane
la folata fredda di quell’attimo
– Forse andrai via così come sei arrivato –
E dopo l’andare via resta in Laricchia la sensazione di essere in sospensione di significato,
restare ferma/
con gli occhi chiusi in ascolto/
della folata che mi porga il filo/
che mi sussurri il verso
e viene fuori la capacità pittorica di questa scrittrice che sa carpire con occhio attento le sfumature dl cielo, la ruggine del porto, I colori del mare
Cigola e lava
il grigio la ruggine al porto
il cielo limone spicca di fumo
confonde la forma
spariglia i colori dei giorni:
svoltano pieni
si attenuano chiari col
mare fusoupioupi.
Ad ogni curva
agguantano un guizzo d’odori calmi e nuovi
di brezza, d’affetti
s’intrecciano a pezzi
strisciano svelti e piombano morti
Ti soffiano in faccia,
ti vibra il sospiro
perchè di liscio e primario
non c’è mai niente al porto.
Ed ancora meglio lo vediamo in quest’altra poesia che ha tutti i connotati per rimandare ad un famosissimo quadro di Van Gogh
Sono giallo uovo
luce bassa da poco
le sere che conosco,
mi dibatto tormento di mosche giro sordo in mezzo alla stanza
Sfioro il verde disteso e sicuro
nel cono fumoso ammicca la sponda
liso in un punto si vede la trama
Fremo sedotto chiedo fortuna
se alla stecca ritrovo
uva ceneri e sassi
non andranno mai in buca.
Spia le fessure
un giallo lampione, mi stampa la stanza
mi guarda
Sono macchie nell’iride verde
scoperte di seta stasera
Alzo la testa, ti sento
battito d’ali in chiesa
Dalla strada vinile
ti guardo
Sei finestra accesa di notte
Sei il fruscìo di una macchina insonne.
Non ci saranno state fotografie nella storia d’amore di Laricchia, però restano pennellate plastiche, come si può evidenziare da questo testo sul quale vorrei sostare con maggiore analisi dell’atmosfera.
Siamo ancora plastici
sulla soglia
di questa stanza immersa
Respiri i miei centimetri di chiuso,
un raggio
fende le stecche sul tuo viso Allora mi sorridi.
Ciechi sulla porta aperta
di questo soggiorno smesso
intero, stiamo solo
di marmo sulla soglia
E non riesco a insistere
– sono stanca, vorrei sedermi –
Eppure ferma
aspetto di non perdere
e mi verso,
per poi sfiorarti appena.
I due sono “ plastici “ , figure quasi statue, ( dice “ di marmo “ ) dentro una stanza dalle cui tapparelle o imposte trapela la luce sul volto di lui che sorride a lei la quale afferma di esser stanca, vorrebbe sedersi, e dice “ mi verso “ usando un verbo in modo inusabile, eppure riuscendo ad esprimere tutta un’apertura, una disponibilità all’altro , e per concludere con un gesto di rinuncia, quello che chiude la poesia. “ per poi sfiorarti appena “.
Una prova bella per una giovane poetessa, un esordio che non dovrebbe passare inosservato alla critica ufficiale, e che ci auguriamo sia il primo passo verso affermazioni che non potranno mancare in futuro.
Matilde Vittoria Laricchia ha 27 anni, è nata a Livorno l’11 novembre 1985 e prende appunti da sempre. Abita stabilmente a Livorno da quando ha 19 anni, ha vissuto in due paesi di provincia in Toscana, tra cui Volterra, e a Torino.
E’ stata attrice di teatro in una compagnia livornese, con piccole incursioni nel cinema.
Dopo la maturità classica, si è iscritta alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa e si è laureata nella primavera 2012.
Nel settembre 2012, con la collaborazione del fotografo e grafico Valentino Barachini, ha dato alle stampe alcune sue poesie, creando un libro artistico/artigianale prodotto in modo indipendente e in tiratura limitata.
Nell’ottobre 2012 ha aperto il Festival internazionale di poesia di Sassari “Ottobre in poesia” con le sue poesie, inserite all’interno del monologo teatrale “Con buona pace” scritto per l’occasione e recitato dall’attore e autore Michele Vargiu.
“Non ci sono foto ma qualcosa è rimasto” è la sua raccolta d’esordio e ha avuto recensioni di Raffaele Piazza su Literary.it e Poetrydream.com, nonché presentazioni critiche dei Prof.ri Mauro Ferrari, Alessandra Paganardi, Emanuele Andrea Spano e del romanziere Simone Lenzi.
PREMI:
2013
– 2° premio poesia inedita Concorso Internazionale di Poesia “Città di Sassari”;
– 3° premio poesia inedita Concorso Nazionale di Letteratura “Zeno”;
– finalista poesia inedita Concorso Nazionale di Poesia “Under 29”.
2012
– 2° premio silloge inedita Concorso Nazionale di Poesia “Guido Gozzano”;
– 2° premio silloge inedita Premio Letterario “Lilly Brogi – La Pergola Arte, Firenze”;
– menzione d’onore silloge inedita Premio di Poesia “L’arcobaleno della vita – Lendinara”.
2009
– 3° premio poesia inedita Concorso Nazionale di Poesia “Antonio Albini”.