Occhi rossi di Andrea Donaera, recensione di Paolo Polvani

Occhi rossi di Andrea Donaera, Roundmidnight ed. 2015, recensione di Paolo Polvani.

   

  

Siamo chiamati fin dal titolo a partecipare a una terapia collettiva del dolore, si tratta qui di medicare, attenuare, tenere a bada un dolore, quel dolore all’origine degli occhi rossi. Immersione profonda nella sorgente di quel dolore allo scopo di vaccinarsi, liberarsi. Non è una novità che la poesia contenga nella sua intima struttura un potere terapeutico, rendere concreto il dolore, dargli una forma verbale, poterlo tirar fuori e guardarlo comprende i principi attivi della medicina. Qui ogni registro è plausibile, l’utilizzo di ogni tasto ritorna a quella specifica funzione. Così è perfettamente aderente allo scopo una leggerissima ironia di uno dei testi di apertura: La ciocca: le spacca la / fronte in due, / egregia signorina con l’anello.

E’ questa una delle poesie più belle dell’intera raccolta, o almeno tra le più belle, vi si fondono il dolore della perdita : – quel dito inanellato, dito magro, / il dito donato a qualche altro dito -, la consapevolezza di una distanza ormai incolmabile, – e lei, / adesso, trafelata nei discorsi, / è tutto uno scrosciare di capelli, / un ergersi di dita, un condannarmi / all’ennesimo distacco – e una sconfinata tenerezza, espressa peraltro con grande efficacia e partecipazione, una tenerezza dolorosa che tenta nell’ironia un cuscino che ammortizzi: – lei parla, / dottoressa, con la voce bellissima -. L’ironia è sempre un tentativo di mettere in mezzo una distanza, ammorbidire gli spigoli, lenire le fitte, provare a sorridere lì dove è negato qualsiasi spazio al sorriso. Si, questa poesia vale da sola l’intero libro: – Sa, mi manca / il nostro darci del tu, signorina, / dottoressa, come un morto mi manca. / E comunque tanti auguri per tutto. – In quel dare del lei, così soavemente canzonatorio e tuttavia sofferente, convivono il tentativo di stabilire una distanza e insieme il desiderio di annullarla, un’atmosfera di sconforto e un anelito a rialzarsi, una richiesta di aiuto flebile eppure sulla soglia della consapevolezza.

Si tratta di un libro ricco di spunti di freschezza, sprazzi di creatività: – bimbi aspiranti Delpiero giù al porto -. A far da sfondo a tale esorcismo dal dolore dell’abbandono, una realtà colta nei suoi particolari, tracce minime della vita che scorre, che continua nonostante il fardello, il peso che opprime, evidenze di una continuazione nonostante tutto, un’aderenza alla realtà come fosse un ultimo salvagente lanciato dalla riva, un ultimo appiglio cui aggrapparsi: i pensionati all’ombra delle chiese, lo sgretolarsi delle fontane, il barista che sbatte le tazzine sul bancone, lo scirocco affumicato, le birre, le cene nei garage clandestini, la musica potente, una ragazza sconosciuta che dorme, in autobus, l’ultimo bagliore dei fuochi d’artificio che chiudono la festa. Anche nella scelta di questi dettagli si avverte una istintiva sapienza, si tratta di elementi densi di risonanze, di implicazioni, una sorta di fermo immagine che conferisce spessore alla narrazione.

Qui viene ammainato per sempre quel vessillo bugiardo che vuole della giovinezza l’età dell’oro della vita, un tempo al riparo e tutto in sicurezza:

Ci vuole
[coraggio. Io
non ce l’ho. Tu nemmeno. Dimmi. Tu
[quante volte
ogni giorno pensi alla morte? Con tutti quei
filosofi che leggi poi… ci penserai sempre.

E’ un’età al contrario esposta agli schiaffi sonori di ogni vento, ai rovesci non calcolati, alle necessarie esperienze che costituiscono un rito di iniziazione all’età del disincanto, di una consapevolezza triste. Forse un inevitabile pedaggio. Consapevolezza che sta tutta qui, in questi versi gonfi di mestizia:

Se poi mi chiudessi a riccio, i miei amici
che direbbero? Che sono cambiato,
senz’altro, che sono invecchiato, già,
a forza di rinunciare alle birre
e alle cene nei garage clandestini.
Direbbero anche: «Che palle! Non fare
il matusa!», invocando i miei vent’anni.
Sommergendo di risate la mia
risposta: «Per favore, liberatemi
dal giogo allegro della gioventù».

In ogni libro di poesie esiste un’alternanza di momenti, da quelli più felici a quelli che lasciano intravvedere una minima crepa, un qualche scricchiolio. Qui invece alcuni barlumi di ingenuità – sulla sabbi, con le dita, scriveva il nome di lei – hanno il pregio di individuare un dettagliato elenco, un inventario preciso di quell’altalena che è tipica degli abbandoni amorosi, dalla vendetta: -sai, hai preso qualche chilo -, alla paura che attanaglia: – si difendeva dal mondo facendo foto -, ai ritorni improvvisi, al fuoco che si riaccende: – domenica vinco la scommessa, le mando un mazzo di fiori a casa -, agli effetti della lontananza: – banale sbiadisci -. Alla delusione, a quel sentirsi esausti, stremati, da una lotta che non lascia scampo:

A casa di Francesco non ci vengo.
Scusatemi, ma è tardi, per me, sempre.
Sempre per me è ora di tornare a casa
a occhi chiusi e rossi.

Un piccolo libro senza sbavature, senza eccessi di sentimentalismo e svenevolezze, sobrio nel dire, con uno stile colloquiale asciutto, che si lascia leggere volentieri e nel quale viene facile riconoscersi. PP

*

La ciocca: le spacca la fronte in due,
egregia signorina con l’anello.
Le dona, separa lo sguardo duro –
e grigio e pesante nuvola. E solo
i capelli possono ciò, perché
proprio suoi, non condivisi – e diciamolo:
mai il dito potrà scinderla così,
in un gesto ad esempio per zittire,
(quel dito inanellato, dito magro,
il dito donato a qualche altro dito).
Signorina, dottoressa, non giudichi
i miei occhi: mi hanno sempre affascinato
le cose verticali – piogge, monti,
crocifissioni, impiccagioni; e lei,
adesso, trafelata nei discorsi,
è tutta uno scrosciare di capelli,
un ergersi di dita, un condannarmi
all’ennesimo distacco. Lei parla,
dottoressa, con la voce bellissima
che, si sente, non la imposta per niente,
e appoggia il mento sulla mano e appoggia

la mano sul mento. E soffia la ciocca –
volteggia nell’aria il suo castano,
ricade senza tonfo. Sa, mi manca
il nostro darci del tu, signorina,
dottoressa – come un morto mi manca.
E comunque tanti auguri per tutto.

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