Tra ali e radici di Rita Proto, Arduino Sacco Ed. 2015, recensione di Miriam Bruni.
Leggere e rileggere questo libro è stato come accedere al Diario autobiografico di una sconosciuta, un diario asciugato ovviamente, sintetizzato, rimasticato dall’autrice e affidato a un editore.
Rita Proto confessa che la Poesia entrò un giorno nella sua casa e le permise di“sciogliere il silenzio”, facendole trovare le parole per dire il “mare nero” che le albergò“dentro” durante i conflitti col marito e la figlia, ma anche per esprimere a modo suo “l’amore, la passione, il corpo dimenticato”.
Ho ritrovato in queste poesie termini di alcuni miei inediti antichi, ad esempio “gli occhi smarriti” dell’inverno, o l’aggettivo “incurante”. La cosa mi ha fatto sorridere, mi ha allargato l’attenzione, l’interesse. Perché le coincidenze stupiscono sempre. Attraggono.
Inoltre in un’intervista l’autrice ha reso pubblico un pensiero che condivido profondamente: ovvero che un poeta “spesso racconta quello che gli manca, ma in certi attimi riesce a cogliere la scintilla di momenti irripetibili. Il poeta guarda in alto, ma conosce le profondità del dolore e della solitudine. Sa godere di un’alba, di un amore, di una vera amicizia. E non si sforza di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno.”
Credo che il Femminile sia in particolare sintonia col Naturale. E dal libro di Rita Proto questa dimensione fa capolino non rare volte. Leggetelo e poi ditemi se sbaglio!
Pur essendoci quindi la tentazione di assimilare quest’opera ad un mazzo di fiori, resterò fedele alla prima idea che la lettura di queste pagine mi diede: quella di un mazzo di carte-parole dedicato alla figlia Liliana, un’anima con la quale si deduce esserci stato un rapporto molto sentito ma anche spigoloso e difficile, come è piuttosto fisiologico che avvenga soprattutto in quei casi dove il ruolo materno deve di necessità ampliarsi per una qualche forma di mancanza “paterna”. Qui è chiaro che il padre lasciò le due donne, e che dopo un po’ di tempo anche la figlia smise di convivere con la madre.
Ali e radici, un titolo anch’esso familiare, conosciuto: era questo il motto di quella scuola media di Bologna al mio primo anno di esperienza docente, quando abitavo a 40 kilometri dalla città ed ero da pochi mesi diventata madre anch’io. Dare ali e radici: il desiderio di ogni istituzione educativa che voglia prendere sul serio la propria “missione”; quanto più questi due poli – apparentemente distanziati, in realtà inevitabilmente collegati – identificano l’aspirazione e l’impegno di persone alle prese con l’esperienza ordinaria e straordinaria di crescere dei figli.
Anche la penetrante introduzione firmata dall’arteterapeuta Marilde Trincherosottolinea come al centro della raccolta vi sia “Luce e buio, dolore e gioia, stupore e rassegnazione: compagni di viaggio che chiedono di essere appresi e attraversati.”
Continuando col paragone delle carte, nominiamo ora le quattro sezioni interne, come fossero i quattro “semi” dei mazzi da briscola. IO FIGLIA, ANNI SETTANTA, IO DONNA, IO MADRE.
Per evidenziarne brevissimamente le peculiarità, possiamo notare come nella prima emerga principalmente un bisogno di tenerezza non avuta, e trovata poi nel creato. Nella seconda si facciano i nomi di varie persone care all’autrice ragazza. Nella terza il resoconto in forma poetica dell’esperienza amorosa, sempre variegata e foriera di cicatrici. Nella quarta si faccia più acuto il senso di perdita. E’ questa ultima sezione quella dedicata ai testi di impronta “materna”.
“Vivere contro di me”, le dice “non ti spianerà la strada”.“Nodo su nodo, dolore su dolore,incontrerai quel punto interrogativo che è stato tuo padre”.
La figlia divenuta donna è ora una madre, una madre spesso sola, che però per “amoroso silenzio” evita di colpire la figlia, pur desiderando ogni tanto chiederle “tu dove sei?” Che posizione prendi?
Nello specchio,
l’immagine della mia solitudine.
La radio sparge note, incurante dei miei pensieri.
Non trovo la strada di casa.
Una madre persa,
in una città vuota.
Mi chiami per sapere se ci sono
e se la tua piantina
ha messo foglie nuove.
Lascio che il dolore
non arrivi, lì dove sei,
a cercare le strade che ho perso.
In te, le mie domande,
si sciolgono in un amoroso silenzio.
La sezione in cui è stato più facile “immedesimarmi” e rammentare momenti simili, pensieri, sentimenti è la terza, quella in cui Rita lascia emergere anche in modo piuttosto esplicito la diversità di linguaggi (con la sofferenza che ne può derivare) tra femmine e maschi:
Mani frettolose di uomo
cercano,
tra le vertebre,
il segreto del mio dolore.
Mani che non conoscono
la poesia
dei ciclamini nel parco.
Uomini analfabeti.
Ed anche quella in cui abbiamo individuato i nostri versi preferiti:
“Qualcuno, nei palazzi vicini,
massacra di note un violoncello”
Nell’ultimo testo che proponiamo alla vostra attenzione l’autrice si rivolge direttamente a Liliana, amata figlia che sta facendo a sua volta esperienza dell’Amore:
Arrivi come un’ Erinni,
fiume che travolge.
Non vedi, non senti.
Profumi di buono.
Quell’odore
che ha la tua pelle speziata,
ora che ha scoperto l’Amore.