DINO CAMPANA:
Retrospettiva a cura di ENRICO GURIOLI – 6.
D’altro canto. Informazioni arrivate da un angolo sperduto del regno
Nel 1908 il poeta e scrittore italiano, Olindo Guerrini, scrive nel suo “Brani di vita” «Lo Sterne nel Tristram Shandy sostiene che ogni uomo a questo mondo ha il suo dadà, il suo cavalluccio; e da noi si dice che ognuno ha il suo ramo di pazzia, anzi Alfredo di Musset scrisse in versi che in Italia questo grain de folie lo abbiamo proprio tutti.(…) Ora il mio dadà sono le biblioteche e non me ne vergogno davvero!». (1)
Anche per il poeta Dino Campana i libri e le biblioteche fanno parte del suo dadà letterario, (ne è convinto anche Mario Luzi!), che lo portano a leggere gli autori, quasi sempre, in lingua originale. Dino cavalca fino in fondo il suo cavalluccio di legno diventando in poco meno di trent’anni l’ineffabile estensore di un suo prosimetro, i Canti Orfici (2) dando vita a una sua visione autonoma della letteratura.
Dante, Baudelaire, Sterne, Rimbaud, Whitman, Hölderlin, Goethe, Dürer, Novalis, Nietzsche, Ibsen, Leopoldo Diaz, Apollinaire, Verlaine, Laforgue diventano i padri del “giovane e bello” descritto nei suoi Canti, testi composti mentre andava in giro per il mondo a cavallo del suo dadà percorrendo i sentieri delle enormi trasformazioni della società occidentale avvenute durante la fine del XIX secolo e l’inizio del XX negli anni in cui lo stile modernista in poesia avvicinava esperienze di diversa provenienza e formazione, creando una continua scia di tendenze letterarie e figurative.
Giovani artisti europei sperimentavano nuove forme pittoriche definendole in movimenti sovrapposti ad altre principali “correnti” di quel periodo come il futurismo, il vorticismo, il cubismo, l’orfismo, il dadaismo e il surrealismo.
Dino Campana, pur rappresentando una singolare e unica prorompente esperienza letteraria per la sua sensibilità inquieta, malinconica, è il poeta che più di altri si trova in quegli anni all’incrocio tra tardo simbolismo ed espressionismo, senza appartenere di fatto a nessuna corrente letteraria codificata, avendo fatto egli di tutto per essere considerato contro il suo tempo, pur cercando invano di farsi accettare dall’ambiente letterario fiorentino e finendo poi per collocare i suoi canti, almeno nel titolo, all’interno del cubismo orfico teorizzato nel 1912 da Guillaume Apollinaire.
Se la biografia del poeta è fatta anche di alcuni episodi drammatici, nei Canti Orfici invece tutti gli episodi della sua vita vengono trasfigurati per assumere un significato assoluto proponendo testi che alludono a tutte le esperienze poetiche moderne, filtrate attraverso il racconto di un personaggio che parla di sé e del suo complesso rapporto col mondo. È una narrazione che permette la diffusione di un nuovo linguaggio poetico, spesso oscuro e ai limiti del comprensibile nel superare le barriere nazionali, i contesti provinciali in cui spesso queste poesie sono collocate, attraverso codici che proiettano Dino Campana su uno scenario mondiale.
Non si può certo parlare di una inquieta solitudine di Campana a cavallo del proprio dadà, bensì di realizzazione certa di sé nel prosimetro stampato a proprie spese nella tipografia del paese e mutuato dalla Vita Nuova di Dante, da Leaves of Grass di Whitman e dai Sonetos di Leopoldo Diaz in cui si legge e si rileva tutta l’esistenza di un Faust, “giovane e bello”, che cerca di interpretare un suo intimo canto da liberare attraverso la scrittura. Si può, invece, descrivere una sua inquieta ricerca di un nuovo linguaggio all’interno del movimento modernista dell’inizio del Novecento senza esserne parte in modo organico.
Scrive il saggista campaniano Gabriel Cacho Millet: «I Canti Orfici e gli altri scritti, l’opera di Campana insomma, non è più la stessa perché, nel frattempo, generazioni di lettori, lettori anonimi e lettori con nome, come Cecchi, Boine, Binazzi o De Robertis, oppure come Bo, Contini e Montale, oppure come Luzi, Bigongiari, Ramat e Bonifazi, sono passati su di essa, rivelandone un senso, riscrivendola.» (3) Omette però di essere anche lui il portatore di questo processo di estraniazione di Campana dalle correnti letterarie del suo tempo contribuendo anch’egli nel tenerlo prigioniero di uno stereotipo narrativo che ripercorre l’opinione ricorrente negli ambienti letterari fiorentini sul poeta di Marradi, collocandolo in quella vasta area intellettuale che ruotava attorno alle riviste nate nel bacino dell’Arno, definita con orgoglio cultura di Strapaese, in quegli ambienti di provincia che avevano rappresentato la strada maestra del fascismo.
Marradi, monti e manicomio diventano così il contesto e il paesaggio su cui far muovere la narrazione su Dino Campana tralasciando tutte le circostanze che lo rendono protagonista di ciò che chiamiamo “letteratura contemporanea”. In questo labirinto esistenziale ognuno dei protagonisti del racconto sulla vita di Campana ha celato o evidenziato qualcosa di comodo, informazioni ingenuamente utilizzate come preziose testimonianze senza alcun riscontro, soprattutto come utili e veritiere narrazioni per certificare fatti dopo la sua morte, molte delle quali usate strumentalmente da una critica letteraria divisa fra Antifascismo, Fascismo, Strapaese, Futurismi e cultura del Novecento.
Non è certo estranea a questo atteggiamento, comune negli ambienti culturali del regime fascista, forte del Concordato del 1929, la condanna degli orientamenti culturali legati al modernismo da parte della Chiesa.
Misteriose scomparse di testi campaniani assieme a improvvise ricomparse di presunti manoscritti, assieme a improvvide censure hanno contribuito a creare il mito di un poeta verso cui non si potrà mai dare un giudizio definitivo.
Vuoti di memoria, omissioni, errori e documenti ritenuti inoppugnabili presi come simbolo di una inquietudine hanno reso verosimile il racconto corrente sull’infelice vita di Dino Campana. Era «il così si dice e così si deve pensare».
In fondo ognuno ha il poeta che si merita!
La vera insidia nella drammatizzazione dell’esistenza di Dino Campana in queste narrazioni non si è rappresentata soltanto dall’eterna lotta tra ciò che è o riteniamo vero da ciò che è o riteniamo falso, bensì dall’ampia manipolazione che è stata fatta nel trovare comunque un pretesto per una ricetta narrativa che si adattasse ad ogni luogo, ad ogni stagione e a qualsiasi evento. È una difficile scelta da compiere, da sceverare rappresentata in modi infidi da questo intreccio formidabile di fatti, pulsioni, opinioni, commenti, analisi sul poeta non sempre di semplice soluzione.
Eppure “Per gustare certi passi di questo poeta bisogna conoscere il paesaggio romagnolo: i suoi rivi, i suoi tramonti, i caseggiati rustici e fieri, le sue bettole sparse sulle strade maestre, il rosa del suo cielo nell’albe e nei tramonti, i suoi monti aspri e rocciosi, i torrenti fronzuti all’intorno. Bisogna conoscere la sensibilità della donna che qua è molto diversa dalla donna toscana, tipo razionale e borghese, con pochi sogni e pochissime follie.
C’è nelle pagine di questo poeta disgraziato e quasi del tutto sconosciuto, un sapore di cielo, di sole, di aria, di solitudine: una freschezza autunnale di paesaggio montanino, con sfondi di montagne severe. (…) A Marradi, ove è nato nel 1885, da famiglia distinta, lo si vedeva di rado e parlava con pochissimi. Quando era “a casa” si ritirava sulle solitudini della sua Campigno. – La Falterona, la Verna, gli erano egualmente ospitali e sacre. Aiutava i contadini nelle faccende dei campi e ne riceveva la ricompensa. Parlava diverse lingue, aveva viaggiato moltissimo: quasi sempre a piedi e senza un soldo – come amava viaggiare lui, da poeta e da pellegrino dell’anima. Il suo temperamento scosso aveva qualcosa di nordico, come la sua facciona barbuta.” (4)
Marradi e il paesaggio romagnolo della valle del Lamone nonché i monti dell’Alto Mugello diventano l’area di comunicazione di base utilizzata dalla narrazione campaniana, anzi saranno considerati spesso con enfasi e a sproposito, da molti esegeti come la scaturigine dell’ispirazione letteraria del poeta sostenendo persino che la formazione scolastica e liceale di quei luoghi, ovviamente all’aria pura della valle assieme a presunti eremitaggi, nonché gli studi compiuti a Faenza, siano stati fondamentali per la sua vena poetica. Come se i programmi degli altri licei del Regno fossero sostanzialmente diversi, quindi privi di efficacia nello studio della letteratura moderna. E ovviamente inutili per la stesura di opere ispirate.
I Canti Orfici saranno considerati dalla vulgata corrente del XXI secolo come testo e descrizione di un paesaggio in cui collocare la vita del poeta ma non mappa simbolica di un territorio.
Dino Fiorelli, controverso giornalista, saggista e poeta toscano, confinato a Ponza dal fascismo nel 1931 perché considerato dalla potente O.V.R.A parte di un gruppetto di artisti pratesi sospetti cospiratori del regime di Mussolini, presumibilmente aveva letto i Canti Orfici e conosciuto le “stramberie” di Campana attraverso Madame Dury, un’anziana signora di origine belga, proprietaria di una libreria antiquaria in rue de la Seine a Parigi, gestita dal marito, un oriundo di Marradi, luogo in cui Dino Fiorelli trascorreva, quasi ogni anno, dal 1921 in poi, le vacanze estive nella vicina frazione di Popolano dove l’antiquario possedeva una villa. Fiorelli dichiara di fatto di non avere conosciuto personalmente Campana tuttavia nel suo testo ripercorre lo stereotipo ricorrente negli ambienti letterari fiorentini sul poeta di Marradi collocandolo in quella vasta area intellettuale che ruotava attorno alle riviste nate nel bacino dell’Arno, definita cultura di Strapaese, in quegli ambienti di provincia che avevano rappresentato la strada maestra del Fascismo storico italiano. Un Fascismo tradizionalista e popolare, cattolico, antiborghese, antiamericano, antidealista e antimodernista, che contrastava ogni selvaggia industrializzazione ed ogni forzata urbanizzazione. Si tratta di un primo ritratto esistenziale di Dino Campana diventato dunque la pietra miliare del mito campaniano che getta le fondamenta per il pregiudizio letterario su cui basare ogni qualsivoglia narrazione campaniana di “poeta maledetto dimenticato” comunque fuori da qualsiasi movimento modernista.
«Si fa un gran parlare, oggi, del poeta Dino Campana, e v’è un alacre lavorio intorno alla sua parva opera: edizioni critiche, stampe d’inediti, studio di varianti, saggi esegetici e biografici, tesi di laurea» (5) dirà con grande supponenza Giovanni Papini, tuttavia coglie con grande sarcasmo il peccato originale della critica letteraria italiana sostenendo il presunto malinteso nazionalismo di taluni critici ermetici, rei di aver gonfiato Campana “con l’aria trionfante di chi dice: anche l’Italia ha il suo poeta maudit, il suo mentecatto di genio“. Poi qualche letterato cercherà di capire con quale legno fosse stato costruito quel cavalluccio, inventandosi un sacco di balle sulla vita errabonda di questo giovane poeta italiano il quale, attraverso un dadà frutto delle sue “manie letterarie”, aveva costruito in pochi anni un capolavoro della letteratura mondiale: I Canti Orfici. La sua fu un’opera fatale, «era cioè dettata internamente, aveva una sua fatalità», un’opera non priva di memoria letteraria, dal momento che «c’era dietro la grande letteratura romantica da Novalis ai nascenti surrealisti […] ai dada, che Campana conosceva benissimo, poiché al di là della sua immagine di barbone, era un lettore acutissimo ed era anche un uomo di letture essenziali». (6)
Agli inizi degli anni ottanta del Novecento, lo scrittore Sebastiano Vassalli si reca a Marradi per “vedere i luoghi che lui amava, per cercare quel sangue tra le rocce”; e non per cercare nuove carte che documentassero la esistenza travagliata di Campana perché tutto era andato distrutto dall’ultima guerra né qualcuno in paese che avrebbe piuttosto raccontato qualcosa a riguardo perché come Vassalli afferma «qualche vecchio di cent’anni cosa avrebbe potuto dirgli di Dino Campana: che era lo scemo del paese? Perché quella è l’unica verità; ma la verità non si dice». (7) La ormai considerevole distanza temporale dall’esistenza del poeta e dalla pubblicazione del suo unico libro, i Canti Orfici nulla toglie alla forza sempre vivissima della sua opera come non aggiunge nulla alla interpretazione del suo viaggio mentale l’origine della devianza. Vassalli si chiede se la pazzia di Campana fosse un fatto reale in presenza anche di un forte sospetto che la sua altalenante personalità fosse causata da un ricorrente disturbo di origine sessuale. (8)
Da editorialista Vassalli riflette su questo dubbio e dimostra a tratti che questa pazzia fosse stata creata ad arte soprattutto dai suoi concittadini solo perché Campana aveva comportamenti fuori dalla norma, una comunità con ovvie difficoltà di comprensione verso chi si considerava un poeta “senza corona d’alloro” nonché all’opposto del letterato di ruolo rimanendo fedele al recupero d’una parola originaria e alla sostanza della poesia. A rafforzare poi questa teoria del giovane disadattato, c’è stata anche l’infelice sequenza di “testimonianze” raccolte a posteriori di concittadini di Campana, i quali senza mai averlo incontrato, rilasciavano confidenze, certamente poco attendibili, sullo stato di salute mentale di un giovane deviante, ma totalmente estraneo alla vita sociale del paese.
Scriveva nel 1922 il giornalista Bino Binazzi, amico vero del poeta nativo di Marradi «Fra gli ultimi bohêmiens d’ltalia Dino Campana è il più tipico ed il più grande. Nessun altro ebbe una vita di miseria avventurosa da paragonarsi alla sua. Assillato da un sogno incoercibile di vastità e di libertà, egli ha percorso nel suo trentennio il più lungo e il più doloroso di tutti i calvari. Non ci fu mai città o paese o regione che paresse bastante al respiro gigantesco dei suoi polmoni. A Marradi, sua città natale, lo conoscono per il figlio strambo – un altro è ben diverso nelle sua modestia e mediocrità di impiegato – del signor direttore delle Scuole. A Bologna qualcuno lo ricorda studente universitario di chimica, bisbetico ed irascibile, sognante come un alchimista e niente affatto freddo e positivo come uno scienziato. Sovversivo, anarcoide, imperialista, violento e tenero al tempo stesso; di una mobilità sentimentale che percorreva rapida come il fulmine tutta la gamma del sentimento umano: dalla mitezza più francescana alla violenza rasentante, a volte, la ferocia, egli non aveva in sé alcuna possibilità di giungere a buon termine nello studio accademico intrapreso. Difatti, dopo aver lasciato dietro di sé una scia di stramberie memorabili, un bel giorno disertò le aule universitarie e il gabinetto delle soluzioni, delle miscele e delle reazioni per studiare una chimica più vasta, che avesse per materia d’esperienza il mondo intero e per gabinetto l’universo.» (9)
«Io sono un uomo ancora inedito. Io conosco cinque lingue e mi offro volentieri per far passare un po’ di giovine sangue nelle vene di questa vecchia Italia, e ciò per tutte le questioni che loro crederanno opportuno sollevare. Un po’ di cultura di pensiero veramente e vivamente moderno la posseggo anch’io. E i miei lunghi viaggi e le diverse manifestazioni del genio umano che ho studiato nelle diverse letterature moderne mi hanno conferito qualche larghezza, serenità e indipendenza di giudizio.» (10)
Era il 1910, Campana stava maturando la sua consapevolezza di essere un vero poeta. Nel 1914, all’età di 29 anni pubblicherà, a proprie spese, il suo unico libro. I Canti Orfici. Morirà, quasi dimenticato, in manicomio nel 1932.
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(1) Brani di vita, 1908; Zanichelli Editore, Bologna, 1917
(2) Canti Orfici, Marradi, Tipografia F. Ravagli,1914. Edizione originale
(3) Dolce illusorio Sud. Autografi sparsi. Autore Dino Campana, a cura di Gabriel Cacho Millet,Postcart edizioni – 1997
(4) Della natura degli italiani e il dramma dell’intelligenza, Dino Fiorelli, Editore Sigfrido 1928
(5) Passato remoto (1885-1914), Giovanni Papini, Firenze, L’Arco, 1948
(6) L’intelligenza progressiva di Campana, in Vero e verso… Mario. Luzi, Scritti sulla poesia e sulla letteratura
(7) La notte della cometa. Il romanzo di Dino Campana, Sebastiano vassalli, Torino, Einaudi, 1984
(8) Barche amorrate. Dino Campana. La vita, i canti e i misteri orfici. Enrico Gurioli, Pendragon 2012
(9) Gli ultimi bohêmiens d’ltalia. DINO CAMPANA, Bino Binazzi, «IL RESTO DEL CARLINO», (Bologna), 12-IV-1922
(10) Souvenir d’un pendu. Carteggio 1910-1931 con documenti inediti e rari di D.Campana, a cura e con introduzione di Gabriel Cacho Millet, E.S.I., Napoli 1985
Enrico Gurioli (Marradi, 21 febbraio 1948) è un giornalista e scrittore italiano. Autore esperto di marineria e comunicazione è collaboratore a contratto dei quotidiani del Gruppo Monrif: Il Resto Del Carlino, La Nazione, Il Giorno- QN (Quotidiano Nazionale). È stato il primo giornalista italiano a scrivere stabilmente per il Times of Malta, il prestigioso quotidiano maltese. I suoi testi sono pubblicati sull’inserto cultura dell’Osservatore Romano e nel Notiziario della Marina Militare. Nel 1991 al 1996 ricopre l’incarico di direttore marketing del gruppo Newton&Compton e dal 2009 al 2011 è stato direttore editoriale della Collana Mare – Gribaudo/Feltrinelli. Ha collaborato come autore con Bolina, Aqva e Mondo Barca. Enrico Gurioli è considerato uno dei massimi esperti italiani di marineria ed è membro di Sihmed, Société Internationale des Historiens de la Méditerranée. Ha scritto il saggio “Il lessico nei traffici via mare e storie di finanzieri e contrabbandieri” per il Comando Generale della Guardia di Finanza. È l’unico autore civile a cui la Marina Militare italiana ha affidato la realizzazione di due volumi sulla Nave Scuola Amerigo Vespucci. Enrico Gurioli ha pubblicato studi sul poeta Dino Campana contribuendo a decodificare il titolo del frammento campaniano “Barche amorrate”, termine mai chiarito in 80 anni dai glottologi di tutto il mondo.