Poesia, Immagine, Figuratività e Postverità, editoriale di Sonia Caporossi

Poesia, Immagine, Figuratività e Postverità: posizione di un problema ermeneutico, politico e sociale. Editoriale di Sonia Caporossi.

    

    

Invitata ancora una volta a tentare la filosofia e i calcoli babilonesi dell’interpretazione su Versante Ripido, vorrei non tanto parlare dell’antico nesso tra pittura e poesia, cosa che più o meno, nel corso della storia dell’estetica, hanno fatto un po’ tutti; bensì cercare di approfondire un problema della stretta ultracontemporaneità insito all’interno del suddetto nesso, dandolo preliminarmente per buono e fondandolo sul basamento comune indimostrato della memoria. Ho sempre ritenuto infatti che dall’oraziano Ut Pictura Poesis a un’auspicata estetica della memoria il passo debba essere breve. Vediamo come ciò sia divenuto un problema e perché.

La descrizione dell’antico ponte concettuale, già grecoromano, tra il poetico e l’immaginifico si fonda sul ricordoin senso bergsoniano, laddove il cortocircuito fra percezione, rappresentazione e intellezione rimanda a una circolarità virtuosa sulla quale si fonda la sistemazione dei dati della realtà e la possibilità, attraverso i processi evocativi e rievocativi tipici della memoria a lungo termine, di dare un senso estetico alle cose del mondo. La memoria intesa come serbatoio di idola mentische vengono di volta in volta recuperati e sistemati all’interno di uno schematismo dotato di senso, viaggia sul discrimine kantiano che unisce (continuamente separandoli) intelletto e ragione. Inoltre, come capacità del cervello di ritenere informazioni provenienti da fonti intellettive o sensoriali, nella propria componente immaginifica la memoria nutre e alimenta l’impulso alla creatività e l’arte figurativa in particolare, essendone il principio di determinazione fondante. Nello specifico, nell’atto creativo connesso all’opera d’arte figurativa entra in gioco la cosiddetta memoria iconica, quella in base alla quale uno stimolo visivo persiste nella mente tramite una fonte sensoriale, anche quando questa non sia più presente alla vista diretta. In psicologia dell’apprendimento, com’è noto, si classificano come inerenti al campo della memoria visuale anche l’after images e la visual persistence, che potrei definire magazzini di memoria sensoriale delle immagini ritenute che contribuiscono alla significazione metacategoriale dell’oggetto d’arte.

Ciò che vorrei suggerire a un’analisi più o meno stringente, è quanto la memoria visiva immaginifica, connessa inscindibilmente con l’aspetto figurativo della dimensione poetica, possa risultare troppo spesso ristretta, costretta e coartata all’interno di un legame soverchiante e deformante con la cosiddetta memoria sociale, riguardante a sua volta la cosiddetta “psicologia della testimonianza”, di questi tempi istanza psicosociologica di fondamentale importanza per comprendere le dinamiche coatte a cui ogni giorno assistiamo, sui social network, nella vita sociale e politica, in TV e ovunque ce ne sia traccia persistente nella memoria collettiva. L’istanza postveritativa o meno delle credenzecome tali, ad esempio, rientra nel campo d’indagine della psicologia della testimonianza come studio delle modalità attraverso cui la memoria sociale si dipana. La credibilità nonché la veridicità dimostrabile degli assunti sociali, siano essi politici, artistici, persino scientifici, la realtà, percepita o meno come tale, dello svolgimento dei fatti, l’affidabilità degli assunti e dei principi di partenza, sono oggettualità socialmente valutabili o svalutabili alla luce dell’incidenza che posseggono sull’elaborazione delle basi informative, giacché influenzano pregiudizialmente gli stereotipi, sia concettuali che iconografici, della realtà stessa nell’immaginario collettivo. È esperienza comune il fatto che taluni ricordi possano risultare influenzati da fattori contingenti ed esclusivamente soggettivi come la predisposizione affettiva, la componente ansiosa, gli interessi, o anche semplicemente il livello di stanchezza dell’individuo che in quel momento cerca di evocarli alla memoria. In base alle ricerche del campo, esiste una cosiddetta idea dominante che svolge la funzione ingannatrice di cancellare o spostare nel dimenticatoio tutti gli elementi considerati dall’individuo non congruenti con la propria carica immaginativa, per costruire una realtà alternativa di ricordi di cui l’individuo stesso si autoconvince, ricordi ricolmi di dettagli avvaloranti la propria esclusiva versione dei fatti, la quale, alla fin fine, risulta inevitabilmente confortante e, in un enorme numero di casi, narcisisticamente autoelogiativa, autotelica e autosalvifica.

Questo meccanismo psicologico, a mio parere, fa pendant con il comportamento osservabile delle bolle speculative in economia. Scrive Robert Shiller, premio Nobel per l’economia: “Le bolle speculative sono più complicate: a volte si sgonfiano perché cambia la storia che le ha originate, e poi tornano a gonfiarsi. Sembra più accurato paragonare questi fenomeni alle epidemie. Il caso dell’influenza ci insegna che può apparire all’improvviso una nuova epidemia proprio mentre un’epidemia precedente sta regredendo, se compare una nuova forma del virus o se qualche fattore ambientale accresce il tasso di contagio […] Se emerge una nuova storia sull’economia e se questa nuova storia ha una forza narrativa sufficiente a scatenare un nuovo contagio nella mentalità degli investitori allora entra in scena una nuova bolla speculativa”. Esattamente la stessa cosa accade nella psicologia della percezione dei gruppi sociali: una notizia di connessione pur sbagliata si diffonde, se postveritativamente ha forza di narrazione non vale realtà che tenga, x è in nesso con y e ormai il contagio è avvenuto, agli occhi di tutti pure chi è perfettamente integro e sano ormai è malato, chi è malato invece è sano, coinvolto in una diceria, in una simbiosi eteroimposta semplicemente perché lo dicono tutti.

Queste sono, in economia, le stesse sorti della new economy che purtroppo conosciamo; in sociologia dei processi culturali, si tratta invece, anche per il nesso tra poesia e arte figurativa, delle ultime vetuste propaggini del postmoderno relativistico più restio a morire, in cui ognuno detiene la verità assoluta e universale proprio perché sua, e se la tiene cara, cullandosela fino alla tomba. Insomma, chi crede di essere poeta lo è spesso unicamente in virtù del fatto che crede di esserlo. Sono certo tempi bui quando la verità si genera semplicemente ripetendo all’infinito una menzogna.

Spero che ora sia maggiormente chiaro che cosa c’entri il legame esistente tra la poesia e l’arte figurativa con le moderne teorie della psicologia dell’apprendimento e la memoria, che cosa c’entri un tale legame con la new economye soprattutto, come si approdi al concetto di post-verità in senso estetico. Nell’immagine mentale che se ne dà su internet,in particolare sui socialcome facebook, twitter, instagram et similia(su instagram è uso comune quello di postare screenshotdi testi poetici direttamente presi dagli schermi del pc), chi è sedicente poeta scrive una poesia che diventa iconicamente tale in quanto versificata, per l’impostazione grafica stessa che se ne dà, addirittura indipendente dalla lettura o meno; la sua stessa esistenza in rete, il solo fatto oggettuale che esista una figura del testo certifica il fatto che di poesia si tratta,bypassando completamente il fattore veritativo; basta l’imagol’idolum, l’immagine irriflessa, la figuratività data anapoditticamente per buona, la falsa idea, o platonicamente, l’idea dell’idea, la forma vuota in senso deteriore. In seconda istanza, si sancisce la narrazione che quell’idea dell’idea, o forma vuota, sia ciò che sedicentemente essa stessa per il tramite del suo autore dichiara di essere tramite il tam tam mediatico affinché sia detta poesia e così via: la menzogna reiterata ad infinitum pretende di divenire verità, in un costruttivismo assoluto che coinvolge il metodo di ideazione nella specifica dinamica sociale tirata in ballo. Nell’era della confusione semiotica di cui parlano i 99 Posse, insomma, l’immagine è tutto, a volte è anche, malauguratamente, poesia: il fatto stesso di leggere l’intestazione di “poesia” riferita a qualcosa di apparentemente versificato a cui si appone una firma e un ironicissimo simbolo di copyright (pregno, nella maggior parte dei casi, di comicità e umorismo involontario…), in automatico, a causa dell’alone postveritativo in ballo, fa sì che tutti ritengano quel testo specifico “poesia”, senza alcuna ulteriore forma di indagine preliminare o a posteriori, né di natura critico-letteraria né tantomeno di natura estetica. A volte un tale processo avviene senza nemmeno una lettura. Eppure molte, troppe poesie lette in rete tutto sono, tranne che arte: lo dichiarano forma econtenuto, figuriamoci la loro stessa immagine.

Spero che adesso il discorso sia sufficientemente chiaro: il nesso tra poesia e immagine che primigeniamente era garanzia della intercambiabilità del nesso semantico tra le due arti, la poesia e la pittura, nell’attuale epoca, pregna com’è di bufale, fake news e politica legapentaostensiva si è sempre più confuso cantorianamente in un’indistinzione in cui va bene tutto; ma proprio perché tutto va bene, niente è riconoscibile e quindi, a rigore, di nulla si può dire che sia ciò che pure è, o potrebbe essere, o sarebbe se x, y, z.  Il costruttivismo concettuale retrostante che vuole sostenere che una poesia è poesia perché autotelicamente e tautologicamente detta tale dal suo autore che la schiaffa sui social soggiace alla concettualizzazione della più lampante post-truthteorizzata da Keyes e Crouch.

Il problema, insomma, è politico perché in primis è ermeneutico. Non è altro che una manifestazione crassamente teratologica dell’autoinganno perpetrato masochisticamente dalle ultime propaggini del postmoderno o, se si vuole, dal post-post-moderno in atto, ovvero la fase storica e sociale in cui, iperattualmente, siamo giocoforza immersi nell’ultracontemporaneo. E parlo di post-post-moderno, giacché il postmoderno come tale è categorema ormai superato, come scrive Sosio Giordano, guarda caso su facebook: “Compatisco l’ignoranza dei postmodernisti arroccati su uno status inesistente: la postmodernità come è stato osservato da Lyotard e Bauman è ancora la modernità (essere sempre ‘post-qualcosa’ fra l’altro, in ogni fase ed epoca, è un’altra caratteristica inseparabile dalla modernità): fare i moderni oggi o se si preferisce i postmoderni significa modernizzare compulsivamente e ossessivamente non tanto l’essere e tanto meno mantenere la propria identità (il costruttivismo gender mutuato da Foucault e Derrida costituisce un chiaro esempio di ipertelia identitaria), ma divenire, restare perennemente indefiniti e incompiuti, né carne né pesce, ma vacua liquescenza.”

Ma allora, come uscirne? Qual è il primo passo per rifondare su altre basi veritative un’estetica della memoria non postveritativa né tantomeno postmoderna o post-post-moderna, che faccia bensì capo a una corretta fruizione figurativa ultracontemporanea del testo poetico?
Giacché sull’ignoranza delle masse si gioca politicamente il destino dei popoli, che ne dite intanto di fare come gli antichi, ovvero di ricominciare a, ehm…leggere?

       

Cristina Bove, "Astratto con luci" - in apertura "Luci"
Cristina Bove, “Astratto con luci” – in apertura “Luci”

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